Carlo Rizzo

Macario visto di fianco

Carlo Rizzo, Wanda Osiris ed Erminio Macario in "Cantando sotto la pioggia"

 

È così che lo vedo io tutte le sere in scena. Mi sta al fianco calmo e saltellante nello stesso tempo. Macario è un vero artista. Non è una novità per nessuno, ma credo che nessuno lo possa affermare con tanta sicurezza come posso farlo io. Quasi tutte le cose che dico in scena non sono scritte sul copione (quel simpatico e comodo copione tanto caro ai comici di poca inventiva) e per tutte le cose che dico, Macario trova una risposta spiritosa, una battuta che l’indomani non ricorderà più, ma non importa, ne troverà un’altra. È una specie di lotta ingaggiata fra Macario e me, una lotta nella quale però io ho tutti i vantaggi. Infatti io ho tempo di prepararmi le battute che dirò, mentre Macario non ha che mezzo secondo per trovare la risposta. E finora non mi è riuscito di batterlo. In una scena della rivista Sera di Festa, Macario parlava di un suo viaggio sulla “Costola d’Avorio” come dice lui per dire “Costa d’Avorio”, e spiegava come si erano trovati in difficoltà in mezzo alla jungla. Per metterlo in imbarazzo gli dico: «Sì, conosco quelle foreste tropicali dalla vegetazione rigogliosa e intricata dove si procede a colpi di accetta!». Non lo avevo mai detto e credevo che Macario proseguisse nel suo racconto. Invece no, si volta e mi risponde di colpo: «Certo, accetta. Tutti accettavano. Chi non accettava, guai, lo mandavano via!».
Un lavoro nuovo si comincia con entusiasmo, poi subentra una certa noia, capita a tutti gli attori costretti a ripetere le stesse cose per sere e sere consecutive. Il pubblico che va a teatro una sera non può immaginare quale fatica sia dare della naturalezza a cose che si sanno troppo a memoria. Ma questa è una sensazione che con Macario non si può provare. Ogni volta che esco in scena penso: cosa verrà fuori stasera? Il pubblico si diverte, ma non sa che ci divertiamo anche noi. Ci facciamo delle risate fuori programma che danno la volontà e il desiderio di lavorare per provare fino a che punto la vena di Macario è inesauribile.

Nella foto: Carlo Rizzo, Wanda Osiris ed Erminio Macario in Cantando sotto la pioggia dalla rivista Tutte donne di Amendola, Macario, Rizzo e Frustaci - 1939

Enzo Biagi

Millenovecentoquarantacinque

MillenovecentoquarantacinqueErminio Macario: sono passati poco più di cent’anni dalla sua nascita. I giornali lo hanno ricordato: ne sono contento perché sono stato suo amico e conservo ancora una sua foto con una dedica affettuosa. Aveva una faccia tonda come un uovo, col riccioletto in fronte, parlava con una cadenza unica, balbettava, si portava dentro un po’ di Gianduia e un po’ di Chaplin, era candido, malizioso e surreale: e sapeva far ridere.
È stato un grande della rivista, e anche l’interprete di alcuni film di successo.
Allora andava molto l’avanspettacolo, che accompagnava la proiezione cinematografica: sei ballerine, la soubrette e il comico. Bei tempi. Trionfavano Wanda Osiris, con la pelle tinta color ocra, la buffoneria innocente di Macario, quella esuberante di Totò, e un’attrice nuova, Anna Magnani che, scriveva Corrado Alvaro, «ha una capacità di osservazione e di forza che ne fanno un fenomeno unico».
Arrivai la prima volta a Milano nel 1945: si attraversava il Po su un ponte di barche, le strade erano segnate dai bombardamenti e le cronache dai banditi che scappavano anche da San Vittore. Ero in compagnia di Giorgio Vecchietti e andammo a dormire da un suo amico avvocato, in un alloggio senza riscaldamento. Passammo anche una sera al Lirico dove Macario rappresentava una rivista sfarzosa: Febbre azzurra e la soubrette era Lea Padovani. Macario si era innamorato della bella attrice, ma più tardi mi confessò che non la capiva: lei gli parlava con ammirazione degli scrittori americani, in particolare di Caldwell, quello della Via del tabacco, e lui le rifaceva il verso: «Senti, Erminio, che poesia: “La terra è buona, assaggia la terra”». E a lui la terra non piaceva.
Uno dei registi più prolifici e abili era Mario Mattoli, che aveva uno straordinario senso dello spettacolo e il gusto per le trovate: per un film di Macario pensò di arruolare una squadra di giovani umoristi, tra i quali Steno, un brillante compilatore del Marc’Aurelio. C’erano Guareschi, Manzoni, Maccari, Metz e Marchesi: Imputato, alzatevi!. E fu un successo enorme.
Sul palcoscenico si esibivano oltre a Macario e Totò, Walter Chiari, Dapporto, Fabrizi, Rascel.
Si erano formati in quel piccolo varietà che accompagnava i film, e si facevano anche quattro rappresentazioni al giorno. Ed era una platea di una severità incredibile: fischiava, beccava, aveva battute più forti di quelle degli attori. Urlavano: «Facce ride!». Si raccontava che a un certo Cacini, che non sempre ci riusciva, tiravano anche gatti morti.
Erminio Macario nella storia dello spettacolo ha il suo posto. Lo avevano dimenticato, eppure era una maschera dai modi cortesi, come era discreta la sua figuretta di clown. «Lo vedi come sei?» era la battuta che introduceva i suoi discorsi, mai volgari.
Torino gli ha dedicato una piazza. La meritava.

Nella foto: Erminio Macario in Piroscafo Giallo di Bel-Ami, Macario e Rizzo, prototipo della commedia musicale italiana.
Roma -Teatro Valle - 1937

Stefano Zecchi

I volti della comicità

 

I volti della comicitàLa comicità ha nella sua essenzialità tre protagonisti che una precisa alchimia riesce a far interagire: l’ambiente, l’attore, il ricevente (il pubblico, il fruitore). Tra essi, generalmente, è l’attore il centro della dinamica comica. La grandezza di Macario sta anche in questa sua straordinaria capacità di non essersi mai fissato in un’unica modalità della comicità. Si è adeguato e ha interpretato situazioni molto diverse, facendoci divertire in modo diverso. Non penso solo alla sua capacità di rivestire ruoli differenti, o di essere protagonista in forme rappresentative diverse (teatro, cinema,  varietà); ma soprattutto alla sua abilità nell’esprimere un modello di comicità variato nella sua alchimia, pur conservando una grande fedeltà alla propria originalità espressiva. Questo è tipico del grande attore che non si fa chiudere in uno schema, ma possiede la duttilità, la fantasia, l’abilità, la maschera per modificare se stesso reinventandosi. Prendiamo in considerazione il Macario attore di cinema, e in particolare tre film: Imputato, alzatevi! (1939), L’eroe della strada (1948), Il monello della strada (1951). Iniziamo da L’eroe della strada: siamo in pieno clima neorealista, un periodo in cui l’Italia a fatica cerca di uscire dal dramma della guerra e di risollevarsi dalle macerie. Macario rappresenta l’innocente in un mondo in cui si consumano piccoli illeciti, espedienti per cercare di tirare a campare. La vicenda inizia con un truffatore (Carlo Ninchi) il quale viene in soccorso al nostro eroe, Macario, a sua volta con problemi di giustizia. La comicità si genera dal continuo scambio dinamico di modelli psicologici in opposizione. C’è, per ora, da osservare che Macario non è maschera: è, cioè, personaggio reale in situazioni che, pensando al periodo dell’immediato dopoguerra, sono assolutamente realistiche. Dunque sul suo volto non cade il famoso ricciolo a virgola, i suoi atteggiamenti sono composti, la sua gestualità è misurata. La comicità si sviluppa, perciò, nello scambio continuo tra innocenza e furbizia, bontà e arroganza, umiltà e potere. Ma nel complesso della trama del film domina lo scambio tra povertà e ricchezza che è rappresentato concretamente dalle avventure del nostro eroe. Lui è un miserabile che una bella ragazza, contrabbandiera di sigarette, a causa di una serie di equivoci ritiene sia un ricco industriale, ma è anche lo sprovveduto in un mondo di furbi trafficoni, è il buono là dove la bontà fa sempre brutta figura di fronte all’arroganza, anche se l’uomo buono e giusto viene premiato. Alla fine noi spettatori partecipiamo alle avventure semplici di un eroe semplice: il nostro sorriso si genera dallo scambio di situazioni psicologiche che toccano la gioia e l’amarezza, la dolcezza e la crudeltà, la conflittualità del vivere l’esistenza del ricco quando si è poveri. È un sorriso talvolta amaro, talvolta malinconico, sempre legato però essenzialmente alla realtà. Diversissimo è Imputato, alzatevi!: qui la comicità si gioca su piani surreali che finiscono per contaminare la realtà stessa. In questa con-fusione di relazioni il paradosso viene vissuto come se fosse una semplice situazione assolutamente normale. D’altra parte, la vicenda giudiziaria del protagonista, Macario, proprio nei suoi aspetti surreali sembra avere una malinconica attualità se ci riferiamo con un salto nel tempo di una settantina di anni all’amministrazione della giustizia di questi nostri anni. Anche se lo spirito che anima il film non doveva già allora essere percepito in modo tanto vago e astratto se, proprio per sfuggire alla censura del fascismo, il film venne ambientato in Francia. Si può essere scambiati per assassini quando si è palesemente innocenti? Certo, non c’è niente (purtroppo) di strano. Si può cadere, a questo punto, in mano a un avvocato senza scrupoli che sceglie come linea di difesa la dichiarazione di colpevolezza da parte dell’imputato che, pure, è del tutto innocente? Anche questo è possibile, ma in questo senso la vicenda inizia ad avere contorni più ambigui. Può un avvocato trasformare un processo per omicidio in un grande spettacolo, oltre a farne una pruriginosa vicenda mediatica in grado di coinvolgere la gente che finirà per seguire il processo come se si trovasse a teatro? In questa prospettiva la realtà è contaminata da piani surreali esibiti come perfettamente normali. Può l’imputato essere felice di apparire di fronte al mondo colpevole di un reato gravissimo come l’omicidio, pur essendo innocente? Nel film accade anche questo, e la vena comica surreale esplode in tutta la sua complessità e pienezza. Può l’imputato essere assolto proprio perché colpevole e trarre un grande vantaggio dalla sentenza? Questo grottesco e surreale paradosso è il cuore del film. La comicità di Imputato, alzatevi! gioca su questi cinque piani di realtà/surrealtà, confondendoli in un grandioso, inaspettato turbinio di avventure, in cui Macario, con il suo ricciolo che rende ancora più comico lo svolgimento della vicenda, sembra essere protagonista per caso.
Ho lasciato per ultimo Il monello della strada, dei tre film quello che amo di più, quello che realizza in una geniale sintesi la comicità realista e quella surrealista degli altri due film appena esaminati. È bellissimo il modo in cui la trama riesce a mettere continuamente di fronte il sogno e la vita quotidiana; la miseria con la speranza; l’illusione e la verità. Allora tutto diventa favola che però non rinuncia a misurarsi con le vicende normali di un’esistenza normale, segnata dalle ovvie difficoltà in cui si ritrova con un bambino piccolo da mantenere e da educare, ed è solo perché la moglie è prematuramente scomparsa. La magia e l’incanto diventano i veri protagonisti del film che irrorano come linfa, come sangue i gesti, i movimenti, le espressioni del protagonista, Macario. In questa atmosfera partecipiamo a una comicità lieve come sospiro di un sogno, dolce come un semplice desiderio di felicità. Tutto il film è percorso da episodi, soluzioni, invenzioni che trasformano la storia in una meravigliosa (sempre inattesa) avventura di uno spirito buono. C’è una fata, o forse un angelo, che però possiede le sembianze di una bella donna mora dagli occhi intensi; c’è il mondo del circo e delle giostre che, come si sa, confonde la realtà con la fiaba e scambia gli uomini in bambini. C’è il trionfo della bontà, quando tutto sembra congiurare contro di lei perché non c’è più tempo. Ma, allora, ecco, come per incanto, il tempo si ferma. Macario corre per una città dove tutto si è arrestato all’improvviso, come se il mondo si congelasse, affinché lui possa riguadagnare il tempo perduto. Poi il disgelo: torna la normalità, l’angelo ha compiuto la sua missione.
Il film, scritto da Metz, Marchesi, Monicelli e Leo Benvenuti, ha una freschezza e un’originalità che andrebbero riscoperte: Macario passa con leggerezza dalla comicità all’espressione drammatica, dall’ironia al dolore. Esibisce tutta la sua grande varietà di registri recitativi, depistando sia chi pensa di vedere in lui un’unica maschera che egli ripresenta senza significative variazioni, sia chi immagina la sua comicità costruita da poche smorfie ben collaudate e da un repertorio di battute di scarsa fantasia

Nella foto: Erminio Macario in Macario contro Zagomar. Regia di Giorgio Ferroni - 1944 per Scalera Film

Dario Reteuna

Macario nell’immagine fotografica e
nell’immaginario collettivo

Come è noto, per oltre un secolo, gran parte della memoria connessa agli innumerevoli eventi riguardanti il mondo e la cultura dello spettacolo, si è tramandata attraverso la reiterata mediazione delle immagini fotografiche.
Se nel corso di una rappresentazione teatrale, pochi attori come il mitico Macario hanno saputo affascinare, ipnotizzare e interagire direttamente con il pubblico e stabilire con la sua arte, in quel contesto e nei rispettivi ruoli, un vero e proprio scambio fisico e simbolico con il pubblico stesso, è proprio attraverso le immagini ripetute che Macario ha raggiunto l'immortalità degli antichi poemi.
Attraverso la contemplazione dell'impaginato statico della fotografia riproducente il suo inconfondibile e straniato volto lunare, per tanti anni la sua innocenza e il suo candore hanno cercato di purificarci dal continuo prodursi e riprodursi delle nequizie e dalle malvagità terrene, e attraverso la catarsi del riso gli è sovente riuscito di ricucire quelle fratture che spesso hanno impedito all'uomo di cogliere il proprio essere sociale e quindi pienamente umano.
Il suo bizzarro ricciolo, la sua stilizzata gestualità, le sue pause di calcolata meraviglia e di complice incredulità e stupore, sembrano fatti apposta per essere congelati e frammentati nelle convenzioni scalari e spazio-temporali della fotografia.
L'originalità clownesca delle sue posture sceniche viene pienamente rivelata specialmente nelle fotografie di scena riprese nel corso di oltre cinquant’anni sui molti set cinematografici e teatrali, ma anche sui palcoscenici dell'effimero e dell'attualità, tutti quanti veri e propri tasselli visivi, luoghi della memoria e della invenzione.
La sua figura otticamente ed elettronicamente ridotta nelle sue opportune dimensioni scalari e riproducente il suo inconfondibile sembiante, ha il potere di alimentare la nostalgia e rivitalizzare il ricordo felice nella memoria di chi lo ha potuto vedere e sentire recitare, e nello stesso tempo le stesse immagini per coloro che sono arrivati più tardi risultano ugualmente importanti come allargamento della dimensione conoscitiva e come fattore capace di alimentare curiosità, suscitare divertimento, sfociando in una ricerca costruttiva scevra da fuorvianti nostalgie.
La figura di Macario, scolpita nei toni del modulato bianco e nero delle fotografie si è inoltre riversata nei segni sgargianti dei molti manifesti, pubblici spazi della comunicazione di massa, fattori induttivi capaci di ingenerare materia e fantasie per alimentare un sogno collettivo, deposito del prezioso fare di famosi nomi della grafica e dell'illustrazione.
Si tratta di un ricomposto universo cartaceo di grandi manifesti, programmi di sala, locandine, artistiche brochure, periodici, fumetti, cartoline e figurine, che hanno permesso a più generazioni di fotografi e pittori di ricamare un lungo peana visivo cucito attorno all’ovale macariano, riflesso lunare di nostalgiche memorie, luogo di comuni identità, deposito di segni su cui per tanto tempo si è riversata e ancora oggi si continua a riversare la collettiva gratitudine e la riconoscenza di colore che, attraverso l'elettrica carica felice e positiva del grande comico, sono stati aiutati da Macario nel difficile mestiere del vivere.

Eugenio Ferdinando Palmieri

Da: ‘La frusta cinematografica’ 

Macario è nato nel Cinquecento, ha recitato davanti ai Re. E’ un attore che non ha bisogno di copioni: è un personaggio con la sua parlata…. Proviene dal varietà, cioè dal teatro senza autore, il teatro che è tutto affidato all’immaginazione dell’attore; quel favoloso varietà al quale dobbiamo Petrolini, Musco, Viviani, i De Filippo… Non bisogna dunque definire Macario, il successo di Macario “un caso”; non bisogna parlare di Macario come di una suggestione senza un perché;  Con quella recitazione inceppata, quella bocca a fetta di cocomero, quella camminata a dondolo e a parentesi, quella vocetta bigia, quella buffoneria attonita, Macario è la ‘scoperta’ più autorevole, la ‘rivelazione’ più importante del nostro cinema parlato. E’ finalmente fiorita dalla commedia dell’arte – arte nostra, gloria nostra – un’altra maschera. E Macario è un classico.

 

WANDA OSIRIS

Da ‘Stelle del varietà’

Macario era un direttore straordinario, un grande industriale, un comico splendido e un compagno generoso. Mi ha sempre valorizzata senza gelosie e senza invidie. Dove lo trovi un amico che vedendoti in scena corre dietro le quinte e ti mette un raggio sulla faccia per farti bella? E un capocomico che rinuncia al gran finale per lasciarlo solo alle donne? Certo, lui è sempre stato così bravo che non hai mai avuto bisogno di rubare la gloria agli altri. Sapeva la sua forza ma era anche così per carattere. Altri comici invece, benchè bravi, non riuscivano a darsi pace se io ricevevo un applauso a scena aperta. Macario era molto artista e durante gli sketch a due improvvisava, ma io mi sono sempre trovata benissimo con lui perchè, anche se facevamo un discorso diverso ogni sera, lui mi dava le battute facendomi capire come rispondergli. Con gli altri, Vianello, Billi e Riva, Pisu, Bramieri, non è più successo.

 

Gino Bramieri

Da ‘Stelle del varietà’

Con il suo dispotismo riusciva ad ottenere il meglio da noi. Nella sua rivista ‘Votate per Venere’ facevo un esistenzalista che passava con un fiore cantando una canzone francese. Macario mi disse che ad un certo punto dovevo fermarmi in scena, smettere di cantare, guardare lui contando mentalmente per tre secondi e poi uscire di scena. Non avevo capito il perchè. Al debutto di fronte a questa mia pausa il pubblico si divertì un mondo. Macario aveva capito come far ridere con una semplice pausa: nessuno ci avrebbe mai pensato, lui sì, era un genio.

Guido Davico Bonino

Da ‘La Stampa’

Ma soprattutto in quelle sale da ballo, cooperative paesane, in quelle fumose stanze da osteria, il giovane Macario fa collezione di tipi umani. Uno, in particolare, lo studia da vicino, con minuzia e puntiglio: il candido indifeso, l’ingenuo spaurito, l’innocente che si fa largo  a colpi di sorriso in un mondo di furbi. E’ il personaggio che metterà a punto, con una finitezza intellettuale e una sottigliezza psicologica di cui non tutti mi sembra si siano pienamente resi conto. In una Italia di uomini forti, di seminatori, di mietitori al sole lungo la strada ferrata, quali li vagheggia il regime, Macario che nel frattempo è divenuto capocomico e si esibisce in tanti cinema teatro della penisola, contrappone il suo eroe-virgola, il suo pusillo beato. Quelli strepitano frasi roboanti, lui sembra sfogare la propria ironia in miti silenzi, esita, si tormenta i bottoni della giacchetta, da ripetente recidivo, sbotta, tra la tenerezza e il dispetto, nel cantilenante ‘Lo vedi come sono?’ Gli altri, uomini forti, non lo vedono come sono, ma la gente semplice si riconosce nella sua dolcezza inerme: e un disegnatore. Manca, si ispira a quella maschera per un personaggio del Corrierino dei Piccoli. Caro commendatore. Come sono egoisti, come sono esigenti gli spettatori a Teatro. Ci ha fatto dono così a lungo della sua calda, rasserenante presenza: eppure, vorremmo ancora averla lì, dinanzi a noi, seduto in proscenio, le gambe penzoloni, snocciolare le sue strambe tiritere, proprio come l’ultima volta.

 

Sandro Casazza

Da ‘La Stampa’

C’era un Macario segreto. Il volto severo che stava dietro la maschera. La fronte senza ricciolo: gli occhi senza ingenui stupori, la bocca senza il sorriso ammiccante, gli zigomi senza i pomelli rossi. L’alchimista scrupoloso, testardo, che ogni volta componeva e mescolava infaticabile gli elementi della sua arte comica. Il crogiolo era naturalmente il palcoscenico. Intorno a quel crogiolo il mago Macario si trasformava: diventava il professionista intransigente, il capocomico rigoroso, anche duro e spietato. Era un direttore di scena rigido come un computer. Con l’insegnamento distribuiva lodi, ironie, ammonizioni. Macario, come tutti i grandi comici, sapeva che la risata è il risultato di una geometria esatta di effetti. Niente può essere lasciato al caso, nemmeno per chi, come lui, possedeva il dono magico dell’improvvisazione. Spiegava a tutti quanto fosse più facile far piangere che far ridere una platea. La comicità richiede doti personali di comunicativa e un dosaggio perfetto di tempi che nessun copione, nè autore, può suggerire. Il vecchio alchimista, dopo più di mezzo secolo di studio e di esperienza, aveva consapevolezza che la chimica del teatro è scienza difficile e severa. Il divertimento del pubblico, una conquista faticosa, di duro lavoro. Questo era il messaggio di professionalità, di onestà che affidava ai giovani, questa era la sua segreta pietra filosofale.

Nella foto: Le Stafford's Dancers in Pop a tempo di beat di Cile, Mazzucco e Amendola da un'idea di Alberto Macario. Costumi di Felicita Gabetti - 1966-67

Vittorio Metz

Da ‘Scenario N.4’

Macario è un malato di umorismo, e quel che è peggio, non di umorismo inglese, nè russo nè di spirito francese. Bensì di umorismo italiano. Questo umorismo italiano che ha pochissimi anni di vita, che è cresciuto a poco a poco, si è sviluppato sui giornali umoristici e ne ha fatto in qualche modo la fortuna, ha creato una nuova maniera di parlare, ha dilagato in tutta la penisola propagandato dagli studenti, è entrato nel teatro, nella letteratura, nella radio e finalmente con ‘Imputato alzatevi!’ ha fatto il suo trionfale ingresso nel cinema.  Macario è appunto la personificazione teatrale e cinematografica di questo umorismo che alcuni definiscono 'intelligente’, che altri definiscono ‘idiota’ e che, forse non è altro che una idiozia intelligente. Si è parlato del ‘fenomeno Macario’, si è portato questo comico alle stelle, lo si è voluto demolire, centinaia di critici hanno tentato di definire la sua arte o la sua mancanza d’arte. Ora io penso che Macario non si può definire, si può tutt’alpiù discuterne. Per alcuni è un Gianduia foderato di Charlot e imbottito di Fratelli Marx. Ora se è difficile definire Gianduia che ha secoli di teatro alle spalle, se su Charlot sono stati scritti poderosi volumi, se i Fratelli Marx sono difficilissimi da comprendere, figuriamoci questi tre diversi esemplari di comicità fusi insieme.

 

Enrico Bassano

Da: ‘Il Secolo XIX’, 

E’ da un bel numero di anni che  “Macario” ha impiantato in palcoscenico la sua ‘maschera’, la più moderna, l’ultima, forse la definitiva ‘maschera’ del teatro italiano, eppure si prova sempre la stessa deliziosa e gioconda sensazione che Macario sia nato alla scena pochi istanti prima di ogni suo apparire alla ribalta, freschi, istintivi, palpitanti sono i segni della sua vitalità, del suo carattere, della sua arte. Poco importa che Macario si presenti al centro delle sue grandi compagnie invernali, con trenta o quaranta bellissime ragazze di alto fusto attorno, tra scenari rutilanti e costumi ricchissimi, e interi sipari di pelle umana accuratamente depilata e levigata: anche tutto solo, minuscolo come un giocattolo per bambini buoni e semplici, indifeso come un bruco, Macario è una grande forza del palcoscenico. Macario è una entità che si difende e vince con una sola grimace, con un gesto puerile, con un ammiccamento d’intesa. E qui si ha la prova della sua amicizia col pubblico.

 

Alberto Blandi

Da: ‘La Stampa’

“Da  tempo Macario accarezzava l’idea di passare definitivamente alla prosa. Ora che la risoluzione è presa, la notizia è meno sorprendente di quanto possa sembrare.  Macario ha sempre avuto un piede, e spesso tutti e due, nella commedia. Anche negli anni dei suoi maggiori trionfi sulle scene della rivista. Basta ricordare come già allora se ne stesse in disparte, quasi “fuori” da uno spettacolo musicale che pure anche se il copione era firmato da altri, poteva ben dirsi tutto suo:  entrava lui, nello spettacolo voglio dire: con i suoi lazzi, e i suoi stupori, con i suoi ammicchi e i suoi sospiri, con le sue folli divagazioni e i suoi lunghi silenzi, rompeva un ritmo fittizio e, sui binari di una comicità surreale e nello stesso tempo piena di buon senso, dava allo ‘sketch’ il respiro e le dimensioni di una scena di commedia. Ecco, magari senza saperlo (o fingendo di non saperlo), Macario faceva già della prosa e ha continuato a farla con tanta naturalezza che anche ora sarà difficile distinguere il comico di rivista dall’attore.

 

Alberto Bevilacqua

Da: ‘Corriere della Sera’

Molti sostengono che Macario, sotto il suo ricciolo, fu affabile maschera. Niente di più errato. Fu assai più ineffabile che affabile, certamente non maschera: così come quello che passa per ricciolo appiccicato sulla sua fronte, meglio può intendersi oggi, come punto interrogativo. Una maschera scenica, in genere, non ha invenzioni che superino se stessa; mentre le invenzioni di Macario, paragonabili spesso ai paradossi e agli estri surreali di un Achille Campanile, ben affondati nella saggezza popolare, obbligano lo spettatore a un sentimento della vita assai più arioso delle limitate tavole di un palcoscenico. Macario fu gnomo, fu elfo. Attinse, forse, senza saperlo, alla fiaba: più francese, tuttavia, che non italica. La sua figurina dubbiosa sulle umane sorti, e quell’interrogativo esistenziale stampato sulla faccia a uovo, si sarebbe collocata felicemente tra gli scudieri alati e i buffoni di Versailles. Vedrete a stormi le sue mitiche donnine. Contorni di femmine-oggetto? Macchè! Era proprio dei fauni e degli elfi – la fiaba allusiva ce lo insegna – il dono di evocare le forme di fate o di streghe. Ravvisabile dunque, nelle donnine formose e gaie, il sogno eterosessuale di un comico che cercava di spingerci, oltreché al sorriso, alla favolosa contentezza dei sensi, mentre la nascita di dittature varie, politiche, belliche, pseudoculturali, rattristava negli italiani l’amore per il prossimo.

Juliet Prowse

Nella foto: Juliet Prowse prima ballerina in Non sparate alla cicogna di Amendola, Maccari e D'Anzi - 1956-57

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